venerdì 22 marzo 2013

Le risposte alle domande più comuni sugli psicofarmaci

Cosa sono gli psicofarmaci?

La categoria degli psicofarmaci comprende quattro grandi classi farmacologiche: gli ansiolitici-ipnotici, gli antidepressivi, gli antipsicotici e gli stabilizzatori dell'umore. All'interno di queste classi sono presenti numerosi composti (principi attivi) con caratteristiche farmacologiche diverse.

Non devono essere incluse tra gli psicofarmaci sostanze comunemente chiamate "droghe", che non hanno un ruolo terapeutico nel trattamento dei disturbi psichici. Tra queste rientrano: l'amfetamina e gli altri psicostimolanti, gli oppiacei (eroina, cocaina), gli allucinogeni (LSD, ecstasy) e i cannabinoidi (marijuana). A differenza degli psicofarmaci, queste sostanze provocano gravi alterazioni delle principali funzioni psichiche (ideazione, senso-percezioni, umore, affettività), conducendo spesso il soggetto ad adottare comportamenti antisociali, per lo più conseguenti alla condizione di abuso e dipendenza che tali droghe inducono.

Come funzionano?


Gli psicofarmaci sono un gruppo eterogeneo di farmaci, in grado di curare o di attenuare i sintomi di molti disturbi psichici attraverso un'azione complessa su specifiche sostanze chimiche presenti nel nostro cervello; queste sostanze chimiche sono chiamate neurotrasmettitori o neuromediatori.

I neuromediatori oggi riconosciuti come più importanti per il funzionamento della trasmissione cellulare a livello del sistema nervoso centrale sono: la serotonina, la noradrenalina, la dopamina, il GABA, i neuropeptidi, l'acetilcolina, il glutammato. Attraverso queste sostanze, i neuroni comunicano tra di loro; tale processo viene definito "neurotrasmissione".

Sui neuroni sono collocati recettori specifici per i diversi neurotrasmettitori. Esistono infatti recettori specifici per la serotonina (serotoninergici), per la dopamina (dopaminergici), per la noradrenalina (noradrenergici) e per il GABA (GABAergici). Gli psicofarmaci, agendo sui suddetti recettori, riescono a modificare l'attività dei diversi neurotrasmettitori, potenziandola, riducendola o modulandola. Come vedremo in seguito, il meccanismo d'azione attraverso il quale gli psicofarmaci producono gli effetti terapeutici, a livello di specifiche zone del cervello, è diverso secondo la classe e il tipo di psicofarmaco considerato.

Gli psicofarmaci curano i disturbi psichici o ne migliorano solo i sintomi?

Le cause precise alla base dei disturbi psichici non sono completamente note. La posizione più condivisa in ambito psichiatrico è il cosiddetto "paradigma bio-psico-sociale": nell'insorgenza di tali disturbi intervengono situazioni di ordine biologico (per esempio danni genetici e alterazioni della neurotrasmissione), di ordine psicologico (tengono conto dello sviluppo e della storia dell'individuo nonché di dinamiche e conflitti inconsci) e di ordine sociale (riguardano il contesto familiare in cui una persona vive e le sue relazioni interpersonali).

In quest'ottica gli psicofarmaci sono generalmente considerati "sintomatici", sono cioè utili per alleviare o controllare sintomi psicopatologici, per esempio ansia , panico, umore depresso, deliri, allucinazioni, stati di eccitamento e di aggressività. In realtà questi farmaci sono in grado di indurre sia la remissione di singoli sintomi (per esempio l' insonnia ), sia di migliorare il quadro generale della sintomatologia che caratterizza una specifica malattia: per esempio gli antidepressivi agiscono su tristezza, astenia, apatia, rallentamento ideativo, inappetenza, idee di suicidio.

Alcuni psicofarmaci (per esempio il litio, la carbamazepina e il sodio valproato, la lamotrigina), denominati "stabilizzatori dell'umore", sono in grado di prevenire o attenuare le ricadute di gravi disturbi dell'affettività, in particolare del disturbo bipolare (o psicosi maniaco-depressiva). Grazie al meccanismo con cui gli psicofarmaci agiscono a livello del sistema nervoso centrale, sono anche state formulate importanti ipotesi biologiche sulle cause dei più gravi disturbi psichici, per esempio la depressione e la schizofrenia .

Sebbene non si possa affermare che gli psicofarmaci siano "curativi" nel senso stretto della parola, la loro efficacia e utilità in questi disturbi è oggi fuori discussione. Questi farmaci rappresentano, infatti, lo strumento principale per agire, sia nella fase acuta che nel mantenimento, sulla componente più strettamente biologica della malattia. All'assunzione di farmaci è importante affiancare un percorso di tipo psicologico, fondamentale per andare a lavorare sulle cause del problema.
La moderna psichiatria è infatti concorde nel ritenere che l'approccio più efficace è quello di tipo integrato che unisce, dunque, trattamento farmacologico a quello psicoterapico

Come agiscono sull'organismo?

In qualunque modo si assuma un farmaco, esso entra nella circolazione sanguigna e si distribuisce diffusamente in tutto l'organismo, incluso il cervello. Il farmaco viene in seguito metabolizzato, ovvero ridotto in molecole più semplici, prevalentemente nel fegato. Queste molecole vengono poi eliminate, in forma non più attiva, attraverso le urine e, in parte, le feci.

Il luogo dove si realizza l'azione psicofarmacologica specifica per i diversi composti è il sistema nervoso centrale e, in particolare, i recettori situati sulle cellule cerebrali (neuroni). È utile sapere, tuttavia, che i recettori sono presenti non solo sui neuroni, ma su tutte le cellule dell'organismo. Pertanto, poiché gli psicofarmaci circolano attraverso il sangue, essi potranno agire anche a livello dei recettori posti sulle cellule di altri organi (per esempio il cuore, l'intestino, i vasi sanguigni), provocando effetti indesiderati (collaterali).

Questi effetti indesiderati sono molto diversi a seconda del tipo di composto considerato. L'obiettivo della ricerca in questo settore è quello di sintetizzare psicofarmaci che, oltre a essere più efficaci, siano anche privi di effetti collaterali: psicofarmaci, cioè, che agiscano esclusivamente a livello delle alterazioni alla base del disturbo psichico, ma che non interferiscano con altre funzioni dell'organismo.

Possono modificare il carattere di una persona?

Gli psicofarmaci non modificano in alcun modo la personalità di base o il carattere di una persona. Non vanno quindi assunti né prescritti con l'obiettivo di cambiare alcuni aspetti del carattere di una persona, per esempio la timidezza, la riservatezza, o viceversa l'esuberanza, l'eccentricità, l'arroganza. In queste situazioni sono consigliabili, se necessari, interventi di tipo esclusivamente psicoterapico.

Un trattamento con psicofarmaci risulta pertanto poco efficace nelle persone che presentano un tipo particolare di disturbo psichico definito a livello specialistico: "Disturbo della personalità o caratteropatia". Le persone con questo disturbo sono generalmente persone aggressive, violente, molto sospettose, che tendono, a volte, a delinquere o che hanno un comportamento antisociale; spesso questi soggetti entrano in situazioni di grave conflitto con il loro ambiente familiare, sociale o lavorativo. Va anche detto che in realtà queste persone, per la mancanza di autocritica e per la rigidità del carattere, difficilmente riconoscono il loro stato di malattia e di conseguenza non accettano di sottoporsi ad alcun tipo di trattamento terapeutico.

Chi deve prescriverli: il medico di base o lo psichiatra?

Tutti i medici possono prescrivere psicofarmaci, se la prescrizione è effettuata con competenza e sulla base di corrette indicazioni diagnostiche. In genere, la classe degli ansiolitici-ipnotici è quella maggiormente utilizzata dai medici di medicina generale, mentre quella degli antidepressivi e degli antipsicotici è attualmente più prescritta dagli specialisti in psichiatria. Questo dato risulta ben comprensibile se si tiene conto che nell'ambito della medicina di base viene diagnosticata e trattata la maggior parte dei pazienti sofferenti di disturbi ansiosi o ansioso-depressivi. Negli ultimi anni, tuttavia, i medici di medicina generale stanno utilizzando con maggiore frequenza anche gli antidepressivi di seconda generazione (in particolare gli SSRI) nella terapia della depressione e di alcuni disturbi d'ansia , per la migliore maneggevolezza e tollerabilità di questi farmaci rispetto a quelli di prima generazione.

Una supervisione specialistica da parte di uno psichiatra è invece necessaria quando le caratteristiche del disturbo da trattare rivestono particolare gravità o nei casi in cui non sia chiaro l'orientamento diagnostico. A questo proposito si sottolinea l'importanza di stabilire sempre un canale di collaborazione e di scambio d'informazioni tra medico di base e specialista, che permetta di offrire al paziente la migliore forma di terapia e di assistenza. L'impiego dei farmaci antipsicotici e degli stabilizzatori dell'umore deve essere considerato di competenza psichiatrica, poiché il loro utilizzo prevede una precisa diagnosi clinica, una più accurata individualizzazione del dosaggio e, inoltre, perché tali farmaci provocano, rispetto alle altre categorie di psicofarmaci, effetti indesiderati più gravi.

Come si stabilisce la dose terapeutica ottimale per ciascun paziente?

La ricerca del dosaggio terapeutico più appropriato per ciascun paziente rappresenta un requisito indispensabile per evitare che il trattamento risulti inefficace, per l'impiego di dosaggi troppo bassi, oppure poco tollerato per l'insorgenza di importanti effetti indesiderati o tossici, a seguito di dosaggi troppo elevati. È di estrema importanza, pertanto, definire con accuratezza in ciascun paziente la "dose terapeutica ottimale", vale a dire quella in grado di garantire un sicuro effetto terapeutico insieme a un'accettabile tollerabilità.

L'assorbimento e il metabolismo degli psicofarmaci variano da persona a persona; ciò spiega perché in pazienti trattati con dosi simili dello stesso farmaco si possono ottenere effetti clinici (terapeutici e/o collaterali) spesso molto diversi. Per questo è opportuno iniziare sempre la somministrazione di psicofarmaci con bassi dosaggi e raggiungere successivamente, in genere entro i primi 7-15 giorni dall'inizio del trattamento, la dose considerata ottimale. L'individualizzazione del dosaggio implica di conseguenza una valutazione abbastanza regolare delle condizioni psichiche e organiche del paziente durante le prime settimane di trattamento.

Chi fa uso di psicofarmaci deve seguire una dieta particolare?

Non ci sono particolari precauzioni dietetiche da seguire durante una terapia con psicofarmaci, se non quella di evitare l'assunzione di alcolici in quantità rilevante. In particolare, l'assunzione di alcolici con le benzodiazepine può determinare profonda sedazione e fenomeni ipotensivi (collassi), anche di una certa gravità.

Nel caso di un particolare antidepressivo, appartenente alla classe degli IMAO, il Parmodalin (oggi peraltro poco utilizzato in Italia), esiste un'indicazione dietetica da seguire strettamente. Vanno evitati tutti i cibi o le bevande contenenti quantità rilevanti di una sostanza chiamata tiramina: il Parmodalin ne impedisce, infatti, il metabolismo e l'eccesso di tiramina può causare crisi ipertensive, a volte gravi. Questo quadro clinico è chiamato "cheese syndrome" (sindrome da formaggio) in quanto la tiramina è presente in tutti i cibi stagionati (fermentati), in particolare i formaggi, il vino rosso, i pesci o le carni conservate, la cioccolata, i fichi secchi, i fagioli.

Infine, si ricorda che alcune categorie di psicofarmaci (antidepressivi triciclici, antipsicotici) possono indurre notevole stitichezza e bocca secca; in questi casi è consigliabile una dieta ricca di fibre (frutta e verdura cotta) e l'assunzione di molti liquidi durante la giornata.

Quali possono essere gli effetti collaterali?

Alcuni psicofarmaci possono interferire con le prestazioni psicomotorie e cognitive, alterando, per esempio, la prontezza dei riflessi, l'attenzione, la memoria e la concentrazione di chi li assume. Queste alterazioni sono naturalmente dipendenti anche dalla dose di farmaco assunta.

In generale, si può affermare che una terapia corretta con dosaggi adeguati e personalizzati non impedisce di guidare un autoveicolo né di praticare sport non pericolosi e a livello amatoriale (per esempio una seduta in palestra o una partita di calcetto). L'eventuale interferenza dello psicofarmaco è tuttavia da valutare attentamente nel caso in cui si svolgano lavori che richiedano particolari attenzioni o abilità manuali nell'utilizzo di macchinari o strumenti pericolosi.

Nel caso in cui il farmaco dia eccessiva sedazione, saranno da rivedere le indicazioni alla terapia, riguardanti il tipo di farmaco utilizzato e il dosaggio prescritto. Molto spesso una riduzione del dosaggio e dei tempi di somministrazione può migliorare sensibilmente la tollerabilità e l'accettazione stessa del trattamento assunto (aumento della compliance). Gli psicofarmaci che, anche a basse dosi, provocano alterazioni di questo tipo sono quelli forniti di una maggiore attività sedativa, per esempio gli antidepressivi appartenenti alla classe dei triciclici (ma non gli SSRI) e i farmaci antipsicotici.

Possono influire negativamente sull'attività sessuale?

Tra gli effetti indesiderati degli psicofarmaci è possibile che si manifestino anche disturbi a carico della sfera sessuale. I più frequenti sono rappresentati dalla diminuzione del desiderio (libido), dalla difficoltà nel raggiungere l'orgasmo (anorgasmia), dalla eiaculazione ritardata e dall'impotenza.

Alcuni antidepressivi e gli antipsicotici sono i farmaci che con maggior frequenza provocano alterazioni di questo tipo. Nel caso questi effetti si presentassero è necessaria un'attenta valutazione da parte del medico e una discussione tra curante e paziente che stabilisca i rischi/benefici della terapia in atto. Ci sono, per esempio, casi di pazienti depressi che per la loro stessa patologia presentano alterazioni nell'attività sessuale, in cui si assiste a un miglioramento della stessa insieme al miglioramento del quadro generale dei sintomi. Va comunque ricordato che i disturbi della sfera sessuale sono sempre reversibili dopo la sospensione del trattamento o attraverso una riduzione del dosaggio.

Cosa s'intende per "effetto placebo"?

Si definisce "placebo" (dal latino "piacerò") una sostanza non fornita di un'azione farmacologica specifica, deliberatamente somministrata dal medico sotto forma di pillola, fiala o sciroppo, per soddisfare il desiderio del paziente di ricevere una terapia farmacologia. L'effetto terapeutico che si ottiene dalla somministrazione di un placebo può, tuttavia, essere anche di una certa importanza clinica. Infatti circa il 35 per cento delle persone con disturbi d'ansia non gravi manifesta un certo miglioramento clinico con un farmaco non attivo (per esempio un'iniezione contenente solo acqua distillata).

Un farmaco inerte, somministrato a scopo placebo, agisce, verosimilmente, attraverso la stimolazione della componente suggestiva della persona che lo assume. L'effetto placebo spiega, in buona parte, come mai farmaci di dubbia efficacia terapeutica o prodotti contenenti sostanze non riconosciute dalla medicina ufficiale (per esempio prodotti contenenti sostanze naturali o estratti vegetali) riescano in alcuni pazienti a produrre effetti terapeutici, anche se spesso di scarsa intensità e di breve durata. Le ragioni scientifiche che sono alla base dell'effetto placebo non sono al momento conosciute. Si ipotizza che l'effetto di una forte suggestione, o semplicemente il fatto di essere "curati", provochi in molte persone la liberazione di sostanze chimiche (denominate "endorfine") capaci di migliorare, anche se spesso solo parzialmente, i sintomi causati da molte malattie.


FONTE: Unità di Psicofarmacologia Clinica, Sezione di Psichiatria
Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica Università di Verona

http://www.nessuno-perfetto.it/cosa_sono_gli_psicofarmaci.html

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